Tibet: tra nuvole, spiritualità e montagne

Siamo arrivati in Tibet con il celebre “treno delle nuvole”, così chiamato perché per gran parte del percorso viaggia oltre i 4.000 metri di altitudine. Abbiamo preso il treno notturno da Xining, previsto alle 22. La partenza è stata un po’ caotica: il gate è stato cambiato più volte, centinaia di persone si accalcavano e i poliziotti con gli scudi cercavano di mantenere l’ordine. In queste situazioni, avere il passaporto fa davvero la differenza: c’è infatti una corsia preferenziale riservata agli stranieri, che permette di evitare la calca di chi viaggia con la sola carta d’identità cinese. Nonostante la confusione, tutto è andato liscio e siamo arrivati a Lhasa addirittura con un’ora di anticipo

Un consiglio prezioso: acquistate le cuccette numerate da quattro posti.
Lo spazio è molto ridotto e noi, viaggiando in sette, ne abbiamo prenotate otto per non dover condividere con estranei. Se viaggiate leggeri, con solo trolley da cabina, riuscirete a sistemarli sotto i letti; con valigie grandi sarebbe complicato.
Portate con voi passaporto e permesso tibetano, controllati sia al gate che sul treno. La nostra guida, Peter, ci aveva suggerito di comprare cibo e acqua prima della partenza: utile, anche se a bordo c’è un vagone ristorante ben fornito.
Al di là degli aspetti pratici, il vero spettacolo arriva al mattino: al risveglio ci attendevano cieli limpidi, steppe infinite e pascoli di yak. Un paesaggio che ti rimane dentro e che rende il viaggio un modo dolce e graduale per acclimatarsi all’altitudine.
Alla stazione di Lhasa ci attendevano la guida e il driver che ci avrebbero accompagnato nei giorni successivi. Dopo una cena semplice, ci siamo ritirati nel nostro hotel della catena Songtsam: non in centro, ma scelto apposta per il suo carattere autentico, caldo e accogliente, lontano dalle atmosfere impersonali degli hotel internazionali. Una lunga dormita ed eravamo pronti a scoprire la città.

Il nostro primo incontro è stato con il Palazzo del Potala, maestoso e imponente, simbolo della spiritualità tibetana. La salita richiede un po’ di fiato per via dell’altitudine, ma con calma e tanta acqua si affronta bene. Intorno a noi pellegrini con in mano collane di preghiera, turisti con bombole d’ossigeno e una devozione palpabile nell’aria. Prima di entrare abbiamo cambiato le banconote: fuori dal palazzo ci sono persone che, in cambio di 100 RMB, ti danno 80 banconote da 1, comodissime da usare come offerte lungo il percorso. E anche questo piccolo gesto ti fa sentire parte della spiritualità che permea il luogo. Usciti dal palazzo, ci siamo fermati nel parco di fronte, dove gruppi di persone ballavano insieme con una gioia contagiosa: impossibile non lasciarsi coinvolgere.



Dopo un pranzo tipico in un ristorante locale ci siamo diretti al Norbulingka, il “palazzo d’estate”, con i suoi giardini in fiore che sembrano un’oasi fuori dal tempo.
Il giorno successivo abbiamo visitato il Tempio di Jokhang, forse il più sacro per i tibetani. Qui i pellegrini si gettano a terra in prostrazione, in un rituale fisico e commovente che lascia un segno profondo. All’uscita ci siamo persi tra le bancarelle di Barkhor Street, un vortice di colori, profumi e canti. Ci siamo divertiti a comprare cappelli, bandiere di preghiera e qualche piccolo souvenir, e abbiamo pranzato su un rooftop con vista sul tempio, provando persino un hamburger di yak. Questo animale è l’anima del Tibet: se ne usa tutto, dalla carne alla lana, fino al burro che profuma di fumo e montagna.
Il pomeriggio ci ha regalato uno dei momenti più particolari del viaggio: la visita al Monastero di Sera, dove ogni giorno, tra le 15 e le 17, i monaci si ritrovano nei cortili per animati dibattiti filosofici. Non sono solo parole: sono gesti, battiti di mani, espressioni forti che trasformano la discussione in una danza spirituale. È stato affascinante e ipnotico osservarli.
Abbiamo chiuso la giornata con un aperitivo rilassante in hotel e una cena in un ristorante tibetano del centro. A letto presto, con la testa già proiettata verso la tappa che più aspettavamo: il viaggio verso l’Everest Base Camp.

Siamo partiti presto, alle 8.30. La strada per Shigatse era lunga e ci aspettava una notte lì, ma il viaggio è stato subito sorprendente. Al primo punto panoramico ci hanno accolto dei bellissimi mastini tibetani e caprette, abituati ai turisti e pronti a farsi fotografare. Non abbiamo resistito: anche noi con la capretta in braccio e la foto di rito, ridendo come bambini.
Ripreso il cammino, tra salite e discese infinite, abbiamo raggiunto i 5.000 metri. Davanti a noi un ghiacciaio spettacolare, anche se il cielo era grigio e cadeva qualche goccia di pioggia. Non ci siamo lasciati scoraggiare: abbiamo appeso le nostre bandiere di preghiera, lasciandole al vento, come segno del nostro passaggio.

Ci siamo fermati a Gyantse per una passeggiata nel villaggio e la visita a un tempio. La guida ci ha raccontato che un tempo qui c’era un bellissimo mercato, molto autentico. Oggi la modernità ha portato comodità, ma ha tolto parte dell’anima del posto. Una sensazione che ho avuto spesso, in questi giorni.
A Shigatse abbiamo dormito allo Sheraton. Non pensate al lusso: qui gli hotel sono semplici, essenziali. La posizione però era ottima, vicino a negozi e ristoranti. Per cena ci siamo tolti uno sfizio “occidentale”: Pizza Hut! È stato quasi strano, dopo giorni di cucina locale, ritrovarsi davanti a un menù così familiare.


La mattina dopo siamo partiti di nuovo alle 8. Lungo la strada ci siamo fermati in una tenda nomade. È incredibile pensare a come intere famiglie riescano a vivere in uno spazio così piccolo, tutti insieme, con una semplicità che lascia senza parole.
Abbiamo proseguito fino a quota 5.218 metri. Improvvisamente, una grandinata fortissima: sembrava di essere nel mezzo di una nevicata. Tutti ammutoliti. L’autista era tranquillo, noi molto meno. Per fortuna le strade, sul lato tibetano, sono curate e sicure.
Per arrivare al campo base bisogna lasciare l’auto e prendere i “green bus”. Quando siamo arrivati, davanti a noi l’unico albergo, proprio accanto al tempio buddista più alto del mondo. Mi aspettavo un posto difficile, invece era pulito, con ciabatte e spazzolini monouso: piccole attenzioni che non avrei immaginato.
La cena è stata una sorpresa: l’hot pot, conviviale e divertente. Ci siamo scaldati attorno alla pentola fumante, assaggiando ingredienti nuovi e ridendo tra noi. Dopo cena, due passi tra le tende, i canti improvvisati e i piccoli negozi: momenti semplici ma che rimangono impressi.

La notte non è stata facile. L’altitudine si è fatta sentire: mal di testa, risvegli frequenti. Abbiamo capito che è meglio dormire con la testa rialzata. Il cielo, purtroppo, non ci ha regalato una vista nitida sull’Everest. Ma so che qui il tempo è imprevedibile, e accettarlo fa parte del viaggio.
Alle 7.30 eravamo già sul green bus, direzione Lhasa. In origine il nostro piano era scendere verso il Nepal, attraversare il confine e proseguire fino a Kathmandu. Ma pochi giorni prima della partenza un ponte era crollato per le forti piogge, rendendo la strada impraticabile. L’unica alternativa era già chiusa dal terremoto del 2015. Non ci restava che tornare indietro.
A Lhasa abbiamo alloggiato al St. Regis: stanze enormi, comfort internazionale, e prezzi altrettanto internazionali. Bello, sì, ma devo ammettere che ho preferito il Songtsam, molto più intimo e caldo, capace di trasmettere un’atmosfera autentica.
Abbiamo cenato allo St. Regis, tra piatti internazionali e ambienti raffinati, lontani però dall’immediatezza dei ristoranti tibetani.
Il giorno seguente, volo per Chengdu. Non eravamo riusciti a fare il check-in online, ma in aeroporto sono stati efficienti.

Devo essere sincera: mi aspettavo un Tibet più autentico. L’influenza cinese si sente, eccome. Lhasa non è più un villaggio, ma una grande città. Anche nei paesaggi, i pali della luce spezzano spesso l’incanto. Al campo base stanno costruendo alberghi e persino un aeroporto: temo che presto sarà troppo affollato per godere davvero della sua magia.
Eppure, nonostante tutto, il Tibet mi ha lasciato dentro emozioni forti. L’altitudine, i paesaggi maestosi, l’energia spirituale che aleggia nell’aria. È un viaggio che segna, che toglie e dà, e che non si dimentica.